Opera lirica di Christoph Willibald Gluck (1714-1787)
Azione teatrale per musica in tre atti, su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Il mito di Orfeo ed Euridice è, più di molti altri, un mito in grado di trasmettere l’avanzamento dei tempi e il progresso umano.
Quando esso fu inventato, circa 3000 anni fa, la cultura greca era una cultura prettamente orale: la trasmissione dei racconti e delle conoscenze si basava, cioè, sul medium della “parola parlata”. L’aedo, o cantore, era il soggetto prediletto di questa trasmissione. Egli, accompagnandosi alla lira, declamava i suoi versi (semi-improvvisati utilizzando formule poetiche fisse, ripetute e rivisitate di strofa in strofa) cantando di questo o di quel mito. Non esistendo ancora un’idea di narrativa come la intendiamo noi oggi (ossia di storie e racconti registrati attraverso la scrittura sopra a un supporto esterno com’è, per esempio, la carta), l’aedo era costretto a consegnare all’etere la propria arte, che subito scompariva non appena finiva il suo canto, la sua azione-performance.
Per questo motivo nacque una storia come quella di Orfeo ed Euridice. Orfeo, attraverso la sua vicenda di poeta e cantore atavico, legittima la presenza di tanti susseguenti aedi che ne narrano le gesta. Egli, racconta il mito, poiché non riuscì a riportare in vita Euridice, passerà il resto della sua esistenza a vagare e a cantare a tutti quanti la sua tragica storia. Si dice, infatti, che non esisteva un solo cantore della Tracia (la sua terra nativa) che non conoscesse la triste storia di Orfeo e della bella Euridice. Ecco che, allora, scopriamo com’è nato il primo cantore, in grado di trasmettere di generazione in generazione l’arte della musica e della poesia. Ed ecco perché a lui ne seguiranno molti altri: per continuare a tramandare questa e altre narrazioni.
Col tempo, tuttavia, la civiltà umana è passata dall’oralità alla scrittura. Questo passaggio, che rappresenta certamente una delle più importanti evoluzioni tecniche dell’uomo, si manifesta anche nelle numerose varianti del mito di Orfeo. Non a caso, anche nell’opera di Gluck e Calzabigi vi sono dei cambiamenti significativi. Il più importante si trova nel finale dell’opera, ossia in quel momento della vicenda che più di tutti dava testimonianza della cultura orale antica, dato che la seconda e definitiva morte di Euridice era propedeutica per arrivare alla morale finale, ossia quella già detta della nascita del cantore. Nel 1762, però, non ci si trovava più in una cultura orale. Anzi, era quella l’epoca dell’illuminismo, della forza della ragione, della diffusione del sapere. Niente era lasciato al caso: la letteratura era riflessione, non più improvvisazione. Tutto veniva narrato attraverso il saggio, il romanzo o il racconto breve. Lo stesso Gluck fu uno “scrittore“ per eccellenza. Infatti, egli, stanco delle libertà che si prendevano i cantanti di allora, castrati virtuosi che si abbandonavano a continui abbellimenti deviando dal percorso del personaggio, si prodigò per scrivere e fissare nota per nota la propria opera, imponendo agli artisti che la seguissero fedelmente. Fu questa la sua più grande riforma.
E così, anche Orfeo doveva essere modernizzato. Egli, proprio come il suo predecessore, non supererà la prova: tentato dalle parole dolci della sua amata si volterà a guardarla e, così facendo, la condannerà di nuovo e per sempre al regno degli Inferi. E tuttavia, simbolicamente, invece che tornare sul mondo dei mortali a mani vuote, giungerà Amore a rendergliela, perché essi possano vivere di nuovo insieme, felici. Come a dire che non è più necessario vagare di terra in terra a cantare improvvisando, poiché adesso la sua storia verrà tramandata comunque. La registrazione ha la meglio sull’improvvisazione, dunque; la scrittura ha la meglio sull’oralità, la vista sull’udito.
Oggi sono passati altri due secoli e mezzo da quella versione del mito, e ancora tutti ne conoscono la storia (per lo meno per sommi capi), nonostante il mondo abbia subito nuove e profonde modificazioni. Così, proprio come fece Gluck e come si è fatto in generale in passato, anche noi oggi dobbiamo realizzare la nostra variante del mito, fedeli a un’idea di arte intesa come “specchio della società”. E allora, se guardiamo al nostro tempo, ci rendiamo subito conto che esso sta vivendo quella che Walter J. Ong (religioso, antropologo e filosofo americano del secolo scorso) definì propriamente come “un’epoca dettata da un’oralità di ritorno”. Vale a dire che noi oggi siamo sempre più disabituati a leggere, ci abbandoniamo all’ascolto di voci che i nuovi media come la radio, la televisione, il computer e internet ci trasmettono a distanza. E, se leggiamo, allora leggiamo a “spot”: rubiamo velocemente frammenti di frasi che ci vengono inculcati nella mente grazie a oculati battage pubblicitari. In un certo senso stiamo sempre più volgendo verso un “analfabetismo di ritorno”. E, al contempo, siamo sempre più bombardati da immagini. Dunque, nel nostro tempo, il confine fra oralità e scrittura si è in un qualche modo fuso. Esso è molto più labile e difficilmente individuabile.
Dato tutto quanto detto finora, il nostro Orfeo non poteva far altro che vivere in questa contemporaneità, e trasmettere ai nostri posteri una nuova variante del suo mito, sempre incredibilmente attuale. E allora, dovendoci domandare chi fosse per noi questo Orfeo, non abbiam potuto far altro che guardare agli artisti, ai musicisti e ai poeti del nostro tempo. Ecco perché l’abbiamo rappresentato come una rockstar. E come molte rockstar di oggi, il nostro Orfeo non sarà solo un poeta e un cantante (magari un cantautore, nel caso della musica popolare e folk), ma sarà anche un simbolo: un’immagine, un’icona idolatrata dai fans, proprio come l’Orfeo del mito veniva idolatrato dalle baccanti che, ubriache e in delirio, desideravano possederlo, animate da un’esaltazione orgiastica. Egli è, dunque, un moderno Dioniso. È un dio, insomma: un dio del rock. Ed ecco perché il suo mondo, tutto il mondo che noi descriviamo, non poteva essere altro che l’universo in cui questa rockstar si muove. Una realtà fatta di gioie e dolori, di eccessi, di sfrenatezza, di velocità, di esperienze portate sempre al limite estremo, fino quasi alla morte. Egli, anzi, sarà costantemente attratto dalla morte, si sentirà vivo solo in relazione con essa. Del resto, lo si deve ricordare, nel mito originario Orfeo viene anche descritto come uno sciamano, capace di incantare con la sua musica uomini e dèi, vivi e morti, fiere e animali, e dotato di un doppio passo, in grado di farlo camminare non solo sul mondo terreno, ma anche lungo gli oscuri sentieri della morte.
Ma, allora, come potevamo rappresentare questo viaggio in chiave moderna? Abbiamo deciso di sospendere il momento della morte in un solo attimo: un istante congelato nel quale, come spesso si dice che accada ai morenti, passerà tutta la vita davanti agli occhi di Orfeo. È all’interno di questa frazione di secondo, di questo attimo fuggente che il nostro protagonista (figlio della frenesia e della velocità che caratterizza questo mondo) sarà costretto a viaggiare. Egli viaggerà, cioè, in un luogo parzialmente mentale, sospeso in un limbo, in bilico fra la vita e la morte, nell’arduo tentativo di recuperare la sua Euridice: nel tentativo, cioè, di rimanere aggrappato al suo ricordo e di non perderla.
Tuttavia, man mano che nell’immaginarci questo spettacolo volgevamo al finale, era necessario per noi porci un’altra domanda. Ovvero sia: riuscirà il nostro Orfeo a far rivivere nuovamente Euridice? E ancora: sempre pensando alla nostra società, è giusto che in una riscrittura attuale del mito egli possa riottenere la propria amata in premio, nonostante tutti i suoi fallimenti? La risposta, naturalmente, la troverete nello spettacolo.
Ma una cosa è certa: poiché la sua storia ci è stata trasmessa fino a noi, era nostro dovere che anche questo Orfeo la trasmettesse nuovamente al pubblico (al nostro pubblico!) e ai nostri posteri. Era necessario, cioè, che questo cantore ci narrasse ancora una volta la storia di Orfeo e della sua Musa, la bella Euridice. Per farci riflettere su di noi, oggi, nuovamente.
È questa l’ultima immagine che volevamo dare al nostro spettacolo: l’immagine di una riacquistata importanza del tramandamento orale attraverso la musica e la poesia, come simbolo di una reale comunicazione. Una comunicazione di una morale e di un insegnamento che oggi giorno, ogni tanto, ci viene un po’ a mancare.
Stefano Simone Pintor
www.stefanosimonepintor.com
Orfeo ed Euridice
di C. W. Gluck
Sikle Marchfeld, Orfeo
Roma Loukes, Euridice
Georgina Louise Stalbow, Amore
Orchestra Poliziana
Roland Böer, direttore
Stefano Simone Pintor, regia
Gregorio Zurla, scene
Noémie Grottini, costumi
Gianni Trabalzini, luci
Virginio Levrio, Gregorio Zurla, Stefano Simone Pintor, interventi video
Maria Stella Poggioni e Stefano Simone Pintor, coreografie
in collaborazione con École de ballet
Mauro Montanari, progetto grafico
Lisa Frigo, maestro sostituto
Gabriele Centorbi, assistente
Emilio Zanetti, assistente alla regia
Elena Colombo, assistente alle scene
Stefania Coretti, assistente ai costumi
TEATRO POLIZIANO
18 E 19 LUGLIO ORE 21,30
20 LUGLIO ORE 17,30
PER INFO E PRENOTAZIONI // mail: prevendita@fondazionecantiere.it // tel: 0578 75 84 73